Il giudice ucciso dalla mafia scrisse nel 1991 la prefazione per il libro bianco di Confesercenti “Estorti e riciclati”
Ricorre oggi il 27esimo anniversario della strage di Capaci. Il 23 maggio 1992 la mafia uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Tantissime le iniziative in tutta Italia. Nell’Aula Bunker dell’Ucciardone di Palermo, luogo simbolo del Maxiprocesso a Cosa Nostra, l’appuntamento annuale organizzato dalla Fondazione Falcone. Ed è arrivata a Palermo la Nave della legalità con oltre 1500 studenti a bordo, insieme al ministro dell’Istruzione Bussetti, il ministro della Giustizia Bonafede, il procuratore nazionale Antimafia Cafiero de Raho, il capo della Dia Governale.
Anche quest’anno i ragazzi coinvolti prenderanno parte alle iniziative organizzate in tutta la penisola, e in particolar modo a Palermo, dove con diversi eventi si ricorderanno le vittime delle stragi di mafia: Capaci e via D’Amelio.Le celebrazioni istituzionali si terranno nell’Aula Bunker dell’Ucciardone, luogo simbolo del Maxiprocesso a Cosa Nostra.
Confesercenti si unisce alla commemorazione del magistrato, ripubblicando la prefazione che il magistrato scrisse per il libro bianco di Confesercenti “Estorti e riciclati”, dato alle stampe il 15 settembre 1991, appena otto mesi prima dell’attentato di Capaci.
Un testo scritto a poca distanza dall’assassinio dell’imprenditore anti-racket Libero Grassi, ma ancora ferocemente attuale. E che costituisce un’eredità preziosa, visto che è uno degli ultimi interventi di Falcone: dopo meno di un anno – il 23 maggio 1992 – il magistrato verrà assassinato a Capaci in un vile attentato mafioso. Con lui, perderanno la vita la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
ECCO IL TESTO INTEGRALE DELLA PREFAZIONE:
La commozione e lo sdegno per l’efferata uccisione di Libero Grassi si rinnovano e si esaltano leggendo questo “Libro bianco» alla cui realizzazione egli aveva apportato il suo contributo appassionato. Era stato giustamente definito, il Grassi, come un “imprenditore che non ha avuto paura», ma è sconfortante dover constatare che solo il suo sacrificio ha imposto all’attenzione di tutti, oltre alla grandezza del suo impegno civile, la gravità di una situazione da cui alla fine egli è stato travolto. Non si tratta di fare il solito richiamo letterario alla beatitudine dei paesi che non hanno bisogno di eroi, ma piuttosto di dover prendere tristemente atto che ancora né le istituzioni né la società si sono rese conto fino in fondo della gravità crescente del fenomeno della criminalità organizzata e della sua potenzialità destabilizzante. Se occorreva la morte di Libero Grassi perché si rinnovasse, nella società e nello Stato, una parvenza di reazione alla mafia, peraltro non del tutto scevra da contingenti calcoli di lotta politica, non è retorico né provocatorio chiedersi quanti altri coraggiosi imprenditori e uomini delle istituzioni dovranno essere uccisi perché i problemi della criminalità organizzata siano finalmente affrontati in modo degno di un paese civile.
Si suole affermare che questo stato di cose è la diretta conseguenza del perverso intreccio tra politica e mafia che rende timida ed incerta l’azione repressiva dello Stato, ma tale assunto, pur avendo un fondamento di verità, è riduttivo e rischia perfino di banalizzare questioni di particolare complessità e gravità.
E così, mentre la risposta istituzionale è ancora largamente insufficiente, la società civile continua ad avere una visione oleografica e distorta del fenomeno mafioso, identificandolo con qualsiasi fenomeno di criminalità organizzata o, peggio, ritenendolo appannaggio esclusivo delle popolazioni meridionali, accomunate in un giudizio complessivo largamente negativo (si ricordi quel recente sondaggio secondo cui oltre il 75% degli italiani ritiene che la Sicilia sia la vergogna dell’Italia).
Se questo è il quadro realistico della situazione, è ben comprensibile l’amaro giudizio negativo dei familiari del Grassi, contenuto nel breve comunicato emesso dopo la sua uccisione, nei confronti non solo dello Stato, ma anche della società e di quella siciliana in particolare. Ancora una volta dalla famiglia Grassi viene una lezione di serietà e di onestà intellettuale poiché finalmente sono stati messi da parte i soliti discorsi roboanti e privi di contenuti e si è messo il dito nella piaga: uno Stato certamente inefficiente, ma anche una criminalità mafiosa non estranea alla società siciliana. Dopo tanta antimafia di maniera c’era veramente bisogno di valutazioni realistiche e prive di retorica.
E proprio a questa linea di rigore e concretezza nella valutazione dei problemi concreti e nella indicazione realistica di possibili soluzioni sono ispirati questo libro e l’intervento di Libero Grassi. Si è compreso che la causa principale della attuale pericolosità delle organizzazioni criminali risiede nell’enorme disponibilità di danaro di provenienza illecita e si sono affrontati due degli aspetti più importanti ditale tema, che coinvolgono direttamente la libera esplicazione delle attività imprenditoriali: il racket delle estorsioni ed il riciclaggio del danaro sporco.
Le due questioni sono più interconnesse di quanto potrebbe sembrare a prima vista, poiché l’attuale intensificata pressione delle organizzazioni criminali sulle categorie degli imprenditori trova attendibile spiegazione non soltanto nella maggiore ferocia delle prime ma anche nella necessità di reinvestimento di ingenti quantità di danaro di provenienza illecita.
In altri termini, l’immissione del dirty money nei circuiti del mercato lecito passa anche attraverso l’utilizzo di imprese appartenenti ad onesti imprenditori; e ciò si realizza costringendo questi ultimi, non tanto a pagare il tradizionale “pizzo», ma a soggiacere a richieste ben più penetranti che non di rado si risolvono in una conduzione associata delle imprese con la drammatica prospettiva di una futura totale estromissione dell’imprenditore onesto.
Si comprende meglio allora il perché di tante uccisioni di imprenditori; un’ingerenza mafiosa nelle attività imprenditoriali ben più grave delle solite richieste di “pizzo». Queste, infatti, normalmente provocano attentati e danneggiamenti di cose, ma ben di rado l’uccisione della vittima per non far venir meno una fonte di reddito. A scanso di equivoci, va ribadito che il tradizionale “pizzo» non solo è praticato su larga scala in molte regioni del nostro paese ma si va progressivamente estendendo a zone fino a pochi anni addietro ritenute indenni da fenomeni del genere; tuttavia l’intensificata pressione sulle categorie imprenditoriali e il preoccupante aumento delle uccisioni di imprenditori trovano spiegazione, almeno in parte, in ……Leggi tutto